domenica 9 giugno 2013

Il Grande Gatsby al cinema

Il film del momento, il cui trailer (uscito nientepopodimeno che l'anno scorso) ha lasciato migliaia di persone stregate e col fiato sospeso a sudare frementi in una lunga, lunghissima attesa durata fino al mese scorso. Mese in cui finalmente i cinema hanno riempito le sale di frotte di spettatori a briglie sciolte.

Vi confesso, non riesco a decretare, a primo impatto: Grande Gatsby sì o Grande Gatsby no. Promosso o bocciato. Bello o brutto. Mi ha lasciato addosso come una sensazione di estasi un po' abortita e un vago odore di vecchie glorie e disappunto. Cosa che invece non è condivisa, a quanto vedo, dalla stragrande maggioranza delle persone (che evidentemente digeriscono meglio di me le americanate e che probabilmente non hanno letto il libro di Fitzgerald).

Volevo scrivere una recensione proprio per questo, perché sebbene non sia da buttare (la punta di diamante della pellicola sono la fotografia e la scenografia - come non aspettarselo dai realizzatori del Moulin Rouge?-, le location e la magistrale interpretazione di Leonardo DiCaprio), le cose che invece "non vanno" sono molte, e lo rendono a mio avviso decisamente sopravvalutato.

E' stato distorto in un qualcosa che si allontana troppo dall'originale, non solo e anzi non tanto nella narrazione quanto nell'acquisizione di una mentalità e di una moralità completamente differente da quelle del libro. Una morale di redenzione, di peccato, di bontà a tutti i costi. Una morale di salvatori e di salvati e di perfidi aguzzini. Del ricco cattivo e del povero onesto. Una morale che boh, non c'azzecca proprio niente né con lo scrittore né con i personaggi. Non mi è piaciuto che Gatsby nel film venga dipinto come il buono, il santo, il poveraccio, l'eroe. Perché, semplicemente, non è così. Non mi è piaciuto che il passato di Gatsby e di Nick, i festini, i cocktail, le donnette, la New York sfavillante e roboante di fine anni '20 vengano ridotti a un passato di bordelli da dimenticare, a un passato negativo e peccaminoso che ha portato il narratore a finire in psicanalisi (cosa che, peraltro, è inventata di sana pianta e nel libro è totalmente assente). Non mi è piaciuto nemmeno il voler calcare a tutti i costi sul ruolo di Nick cercando di renderlo attivo nelle vicende quando invece il suo personaggio è particolare proprio perché totalmente passivo. Occhio esterno di un voyeur. Non mi è piaciuta nemmeno la musica: non la colonna sonora di per sé, che è senza lode e senza infamia (tralasciando le parti rap e hip-hop che ora spiegatemi voi cosa ci azzeccano con il periodo), ma il modo in cui è stata inserita nel film. Totalmente a casaccio. Ma così a casaccio che mi ha quasi dato fastidio, al cinema quando lo guardavo. Che prima c'è quando non dovrebbe e poi non c'è quando serve. Che è sbagliata e non rispetta gli stati d'animo.

Dall'altra parte invece, come ho già detto, ho adorato i costumi, il trucco, le riprese, le sequenze. Insomma, la parte più strettamente tecnica. E poi, ma questo perché ho un pallino per lei da quando tre anni fa vidi An Education, ho adorato Carey Mulligan.

The Great Gatsby è un romanzo strano, senza dubbio un romanzo fuori dal comune. L'ho letto l'anno scorso e alternavo dentro di me momenti di puro odio e momenti di amore, momenti di noia e momenti di rinnovata estasi. Una battaglia a tutti gli effetti. A metà narrazione mi ero stufata, giorni dopo la fine ho capito che l'amavo. In effetti, considerato il mio caso di odi et amo, forse mi aspettavo troppo da una trasposizione cinematografica. Chissà. Nel dubbio, mi butto indietro nel passato: stasera il mio Gatsby sarà Robert Redford, 1974.



Hic stantibus rebus

Il blog mi manca. Mi manca assai.

Già da un po' ho deciso (affiancata dalle impavidissime compari Lile e Chamils) di dare un taglio allo sbandieramento pubblico delle paturnie personali, emotive, private, confidenziali, demenziali, psicomentali e via dicendo: sì insomma, di non scriverci più i cazzi miei.

Però mi manca, e se da una parte posso fare a meno di spiattellare in vetrina la mia vita, dall'altra non posso assolutamente fare a meno di scrivere: la scrittura è sempre stata una delle componenti essenziali della mia vita (alle elementari già scrivevo dozzine di racconti), e con questo non intendo dire che voglio diventare famosa o che ho un talento o chissà cosa - anche perché l'impegno è totalmente carente nel settore da svariati anni a questa parte - chissà, forse è stato proprio il blog a estinguere la mia vena creativa in un "misero" memoriale scarica-coscienza? Non voglio scrivere per farmi conoscere, né per diventare qualcuno, né per vantarmi di saper fare una cosa che ai miei occhi è più naturale ancora di respirare e proprio per questo alla portata di chiunque (persino di una capra alfabetizzata). Io scrivo per una questione molto più pratica, molto più umile, molto più banale: perché mi fa stare bene. Scrivo perché, semplicemente, non so fare altrimenti. Quello che voglio dire, più o meno, è che voglio reinventarmi: trovare un modo per conciliare scrittura e vita in una combinazione meno personale e più, come dire, indirizzata ad un lettore esterno ipotetico al quale interessi non quante volte ho fatto la cacca in una giornata (spero almeno 2) ma più specificamente il contenuto dello scritto. Che significa? Non lo so. Una recensione di un film magari, o di un libro, o di un viaggio, o ancora una citazione, una canzone, una riflessione.... insomma, di cose di cui parlare che non includano me e chi mi è più vicino in prima persona ce ne sono tante, e se ne possono trovare ancora e ancora.

Però ecco, volevo giusto dire che no, non ripongo penna e calamaio; non ho nessuna intenzione di smettere e mi auguro che niente e nessuno al mondo riesca a impedirmi mai di continuare.
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