mercoledì 16 novembre 2011

Midnight in Paris (Woody Allen strikes again)

Ed eccomi qui, finalmente ho visto (anche se per ora solo in streaming, in quanto uscirà nelle sale italiane solo tra un mese) Midnight in Paris, l'ultimo film di Woody Allen (senza contare quello che fino a qualche mese fa stava ancora girando qui a Roma, Decameron Pie).
Che dire, Woody colpisce ancora. Dopo un paio di ultimi film che sì, senza dubbio erano buoni e avevano quella cinica e ironica impronta d'autore che non passa mai inosservata ma che non erano riusciti a convincermi proprio fino in fondo, ecco che invece qui emerge, forse con un po' meno cinismo, tutto l'incanto agrodolce e nostalgico del regista. E' questo il tipico concetto alleniano della "golden age", ovvero dello scrittore/artista intrappolato in un secolo o in una società che non gli appartiene (o meglio, a cui esso non riesce a sentirsi appartenere), e al conseguente disagio individuale che si proietta su scala universale passando dal singolo al molteplice, dal particolare al generale per abbracciare un nuovo tipo di disagio che diventa condizione esistenziale dell'essere umano, perso (o piuttosto preso, catturato) in una quotidianità estraniante che non riesce a soddisfare la voglia di trascendere dello spirito.
A questo nucleo tematico (a cui fanno riferimento immancabilmente piccole citazioni autobiografiche) Allen accosta però, non come in passato, disprezzo e mordace ironia attutiti da un sottofondo soft jazz, bensì - ecco la novità - una pars construens che si affaccia vibrante sulla scena, un messaggio positivo che il regista affianca alla da lui amata ville lumiere, Parigi: cosa ci può salvare, seppure provvisoriamente, dalla paura della morte se non ciò che più amiamo?
Ma badate bene, l'amore che intende Allen non è solo una passione carnale come si potrebbe fraintendere dalle parole che l'Hemingway degli anni '20 rivolge allo stupito protagonista, al contrario, è un amore più che mai puro e per poter essere tale deve in primo luogo essere spirituale, ovvero un toccasana per il nostro più intimo sentire.
Insomma, Woody Allen è il primo a ripeterci costantemente, quasi con un maniacale accanimento, che le nostre vite prese in un circolo infinitamente più grande valgono come granelli di sabbia mossi con sardonica ironia da un destino spesso capriccioso, ma in questo film, è lui stesso che dà mostra di arrendersi alla più grande debolezza umana: l'amore verso ciò che, seppure per un fugace istante, ci fa sentire immortali: quello è l'unica medicina possibile alla condizione umana di perpetua paura di una fine incerta ma annunciata.
E questo punto di rottura viene sancito dallo stesso Allen nel finale: quanti sono i suoi film che finiscono bene? Quasi nessuno, il protagonista viene sempre sconfitto (anche se non da un rivale ma da una forza superiore, quella del cieco fato). E invece qui, la scena si chiude con un'apertura verso un lieto fine, verso una possibilità di felicità e di riscatto dello scrittore, verso una speranza di serenità.

Parlando più tecnicamente del film, ho davvero adorato le inquadrature di Parigi (la Parigi di Allen, che lui ama "soprattutto sotto la pioggia", come ci ricorda il suo alter-ego attore); in più le musiche degli anni Venti sono l'apoteosi della perfezione per un jazzista come lui, ed è molto ben sviluppata e di effetto l'idea di una Parigi nel passato (prima gli anni Venti appunto, e poi addirittura la Belle Epoque), che mi ha ricordato vagamente i nostri connazionali Benigni e Troisi nella Firenze di "Non ci resta che piangere".

Ottima anche la scelta degli attori, in particolare la Cotillard (adorabile già in Jeux d'enfants) è perfetta per il ruolo che ha recitato.

Beh, che dire, se non che... mi ha fatto venir voglia di tornare à Paris?!
Non mi accontento dello streaming, a dicembre in sala ci sarò anch'io :)

E ora.... aspettiamo con ansia Decameron Pie! ;)

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