martedì 18 maggio 2010

Figlia di un maggio acerbo

E' tardi. Le stanchezze del giorno che muore, le lascio scivolare tutte sul mio corpo, piano. Sulle labbra morbide, sulla pelle liscia delle braccia, sulle ginocchia ruvide. Piano. Posso sentire il silenzio, posso capire il silenzio. Lascio fluire i miei pensieri liberi e privi di freni, lascio che svuotino la mente, mentre la testa torna leggera e la pelle d'oca mi avverte che il lenzuolo è troppo leggero per la stagione, o forse è la stagione che è troppo fredda per il mio lenzuolo. Chissà. Le braccia cingono le gambe mentre lascio che lo sguardo vacuo si oscuri per amplificare la piacevole sensazione dei brividi sulla mia pelle. Il pigiama estivo, il profumo di giugno e la finestra spalancata su un maggio ancora acerbo. Come me, e come questi diciotto anni di una vita che credo di aver compreso a perfezione, e invece ancora, nelle sere come questa, m'accorgo: mi sfugge. Mi osservo le braccia, mi tocco le guance, il neo sulla spalla sinistra e la piccola voglia rossa sulla mano, e il pensiero che loro ci saranno ancora è un buffo incoraggiamento a lasciar andare via la claudia che non mi appartiene più. Mi crogiolo pigramente nell'osservare la morte di una figura che è l'ombra di una me passata, estranea ma meravigliosa cenere. Faccio sì che ogni singolo pensiero non si disperda lontano, ma resti per un poco accanto a me, mi circondi e mi culli un po' in questa sera strana. Domattina se ne saranno andati, e sarà una mattina come tutte le altre. Ma domattina se ne sarà andata anche la me che li ha accarezzati delicatamente durante la notte. Una me che cambia, una me che lascia spazio alla nuova, e che saluta una me ancora da venire. Quando verrà? La sento nell'aria, e sento un'estate che è ancora lontana. Forse sboccerà in ritardo come questa primavera. Una rinascita. Una nascita. Sono la figlia di un maggio acerbo.

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